Capita che al cinema o in televisione i bambini si imbattano in scene che descrivono una ‘scuola’ secondo i normali canoni correnti. I banchi, la lavagna e la cattedra, i bambini che chiedono il permesso per andare in bagno, studenti ripresi perché non stanno fermi sulle sedie, i giudizi insindacabili sul lavoro dei ragazzi, gli scherzi agli insegnanti, le mani alzate per parlare, i dispetti nei corridoi, i gruppetti che si fronteggiano e i bambini che rimangono soli perché sono ‘diversi’ per qualsiasi motivo.
I miei figli quella scuola lì non la conoscono, anzi, mi rivolgono sguardi perplessi e mi chiedono perché quel posto lì lo chiamano ‘scuola’.
Per i miei figli, da quattro anni a questa parte, scuola è un luogo accogliente e sicuro, fatto a loro misura, dove si muovono agilmente e senza paure, senza restrizioni, senza permessi, punizioni o premi. E’ un posto dove possono sperimentare serenamente attività quotidiane, dove possono fare tutte le domande che gli vengono in mente (aspettando il loro turno, ovviamente), dove vengono rispettati in ogni più piccola particella del loro essere, dove imparano la bellezza dell’ordine, del silenzio, della pazienza, del rispetto per gli altri bambini, per le maestre, e per il loro ambiente. Imparano a prendersi cura di loro stessi e dei loro bisogni, facendo sempre molta attenzione a quello di cui potrebbero aver bisogno anche gli altri, prendendosi cura anche degli oggetti che utilizzano quotidianamente.
Quando mi trovo a descrivere come i miei figli passano le loro giornate a scuola, in genere i commenti dei ‘grandi’ sono: ‘molto bello ma prima o poi dovranno entrare nel modo reale’, ‘tieni i tuoi figli sotto ad una campana di vetro’, ‘i tuoi figli non stanno imparando cosa vuol dire stare al mondo’, e via dicendo sui generis. Io apro la bocca come per rispondere… e poi la richiudo. Quando i miei colleghi ‘grandi’ mi dicono che tengo i miei figli sotto ad una campana di vetro e che prima o poi la loro ‘pacchia’ finirà e dovranno scontrarsi con questo terribile mondo reale mi sento di avere di fronte persone che o hanno perso la speranza, o hanno perso la fiducia nel futuro.
Noi – mi sento di poter parlare a nome di tutti i genitori della cooperativa – non stiamo nascondendo ai nostri figli le brutture e le tristezze e le difficoltà del mondo reale. Noi stiamo cercando con tutte le nostre forze di far vedere loro che un mondo diverso da quello del telegiornale c’è, è possibile. Un mondo dove si rispettano tutti e si sostengono tutti nelle loro difficoltà e nei loro limiti. Un mondo dove tutti, nell’ambito delle loro possibilità, concorrono al bene comune. Un mondo dove ognuno ha i suoi tempi e dove c’è tempo per tutti, nessuno viene lasciato indietro e a nessuno viene messa fretta. Un mondo dove si lavora con gioia. Un mondo dove non serve difendersi o nascondersi, perché si accettano tutti per come sono.
Kahlil Gibran descriveva i figli come delle frecce e i genitori gli archi con cui si lanciano:
‘Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.’; ci piace immaginarli come delle frecce spinte da un vento nuovo, frecce fiduciose, sorridenti e felici, nella pienezza della realizzazione del loro futuro.
Un genitore.