Il mare di parole

“Parole, parole, parole…” cantava Mina: soltanto parole, magari anche d’amore, ma pur sempre un mare di parole. Forse troppe e non sempre accompagnate dai fatti. E’ una lamentela che spesso è sulla bocca di noi adulti, mentre i bambini difficilmente esprimono a voce il fastidio generato dal fiume di parole con cui noi grandi in genere li inondiamo.

Sia che stiamo formulando spiegazioni all’ennesimo perché, sia che si tratti di una ‘romanzina’ (già il vocabolo dice tutto… un romanzo è quel che ne esce di solito!), o di una dimostrazione pratica su come fare qualcosa, noi adulti inconsapevolmente usiamo mezza Treccani per veicolare un messaggio che richiederebbe poche parole, se non semplicemente il silenzio e pochi gesti.

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La marcia

Domenica mattina di metà ottobre. Anche se è domenica, anche se siamo stanchini da sabato, la sveglia suona alle 7.30 e ci mettiamo in pista: colazione, spazzolino e dentifricio, via il pigiama e dentro la tuta e indossiamo tutti e quattro le scarpe da ginnastica. Oggi è il giorno della Marcia Brovada e Muset (piatto tipico friulano, composto da un insaccato simile al cotechino – ‘muset’ – e rape bianche dal colletto viola fermentate nella vinaccia – brovada.) di Tauriano di Spilimbergo, il paese che ospita la nostra scuola.

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La campana di vetro

Capita che al cinema o in televisione i bambini si imbattano in scene che descrivono una ‘scuola’ secondo i normali canoni correnti. I banchi, la lavagna e la cattedra, i bambini che chiedono il permesso per andare in bagno, studenti ripresi perché non stanno fermi sulle sedie, i giudizi insindacabili sul lavoro dei ragazzi, gli scherzi agli insegnanti, le mani alzate per parlare, i dispetti nei corridoi, i gruppetti che si fronteggiano e i bambini che rimangono soli perché sono ‘diversi’ per qualsiasi motivo.

I miei figli quella scuola lì non la conoscono, anzi, mi rivolgono sguardi perplessi e mi chiedono perché quel posto lì lo chiamano ‘scuola’.

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